“L’insulto”, nelle sale in questi giorni, è un buon film, ben diretto
e ben recitato, pieno di buoni sentimenti, tranne uno: l’odio verso gli ebrei.
Ambientato a Beirut, è incentrato su un processo che vede contrapposti
un arabo cristiano e un palestinese. Da un banale diverbio nasce un insulto:
“Sei un cane!”. Basterebbe chiedere scusa, invece arriva anche un pugno. Si va
in tribunale, poi ancora in appello. Perché i due protagonisti non riescono a rappacificarsi,
e neppure a comunicare? Perché entrambi hanno sofferto troppo – è la tesi del
film - per i torti e le ingiustizie patite. Il dramma, in un crescendo
incalzante, rivela fatti ed episodi storici che riemergono dal lontano passato.
Si scoprirà che nel ‘70, in Giordania, il palestinese dovette
assistere alla brutalità con la quale l’esercito regolare liquidò i miliziani
dell’Olp, con migliaia di vittime anche fra i civili. E che pochi anni più tardi,
nel 1976, il cristiano maronita era un bambino quando fu fatta la pulizia
etnica del suo villaggio, all’inizio della lunga e sanguinosa guerra civile
libanese.
Per questo i due protagonisti (il primo sembra un leghista cattivo, il
secondo un immigrato buono) tuttora si odiano: fanno fatica a perdonare e a
comprendere appieno il dolore dell’altro. A ben vedere, in fondo all’animo, sono
tutti buoni. Tutti, tranne gli ebrei.
Il film inneggia alla convivenza pacifica, alla comprensione
reciproca, al dialogo, alla solidarietà umana: ma solo fra arabi. Tutto questo,
per gli ebrei non vale. Quando l’avvocato cristiano vuole denigrare i
palestinesi, dice: “Sono carnefici che vogliono atteggiarsi a vittime, e sappiamo bene da chi hanno imparato…!”.
Quando scoppiano disordini di piazza, si vede un manifesto in cui il querelante
cristiano è ritratto con cernecchi, cappello e cappotto neri. Questa è l’ingiuria:
ebreo. Quando in aula si alza il tumulto, qualcuno dal pubblico grida all’avvocato.
“Cane sionista!” e solo allora lui perde le staffe e si avventa contro l’insultatore,
trattenuto a stento da poliziotti e amici. E per colmo dello sfregio, sull’officina
del protagonista arabo cristiano qualcuno traccia, di notte, la Stella di
Davide.
L’elenco sarebbe lungo, ma fermiamoci qui. Solo una domanda: tutte le
belle parole del finale, l’invito a capirsi, a condividere la sofferenza
altrui, al dialogo, alla comprensione, alla capacità di chiedere scusa e di
perdonare, tutto questo…. per gli ebrei non vale?
Questo film arabo-pacifista rievoca i bei tempi andati, il Libano di
una volta, la “Svizzera del Medio Oriente” pluralista e neutrale. Ma non dicendo
tutta la verità, in realtà mente. Piacerà molto in Europa.
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